29/09/14

Quando il lavoro che ami è una trappola


Quando si parla di lavoro sembra proprio che il modo di dire  “ fa quello che ami” o “ama quello che fai” sia diventato il mantra ufficiale dei nostri tempi.
Sulle prime sembra contenere un messaggio edificante che ci spinge a chiederci quale sia la cosa che preferiamo fare e trasformarla in una attività da cui ricavare un reddito, ma con un po’ più di attenzione si scopre che non porta alla salvezza ma alla svalutazione di quel stesso lavoro che dice di voler elevare e , soprattutto, alla disumanizzazione della gran parte dei lavoratori.
A chi si rivolge o non rivolge , questa esortazione ?
Incoraggiandoci a restare concentrati su noi stessi e sulla nostra felicità individuale, lo slogan ci distrae dalle condizioni di lavoro degli altri e al tempo stesso conferma le nostre scelte , sollevandoci dalla responsabilità  nei confronti di tutti quelli che lavorano anche senza amare il lavoro che fanno.
E’ la stretta di mano dei privilegiati, è una visione del  mondo che maschera l’ elitismo in nobile aspirazione a migliorare se stessi.
Secondo questa scuola il lavoro non è una cosa che si fa per un compenso, ma un atto d’amore verso se stessi, se il profitto manca è perché il lavoratore non ci ha messo abbastanza passione.
Il vero obiettivo  è illuderci che lavoriamo per noi stessi e non per il mercato.
Tutti i “predicatori” della positività includono da decenni questo modo di dire nel loro repertorio,  ma il suo più importante e recente evangelista  è il defunto amministratore delegato della Apple , Steve Jobs.
Il suo discorso alla Stanford University può essere un mito originario credibile soprattutto da quando Steve Jobs è stato beatificato come santo patrono  del lavoro estetizzato, ben prima della sua morte prematura.
Durante il discorso Jobs ha introdotto questa riflessione “Dovete scoprire le vostre passioni. E questo vale nel lavoro come nell’amore. Il vostro lavoro occuperà una grossa parte della vostra vita e l’unico modo per essere veramente soddisfatti è farlo bene. E per fare bene il vostro lavoro, l’unico modo è amare quello che fate”
Ma rappresentando la Apple come frutto del suo amore individuale Jobs ha cancellato il lavoro di migliaia di anonimi  che lavorano negli stabilimenti della azienda, al riparo da occhi indiscreti, dall’altra parte del pianeta: gli stessi che hanno permesso a Jobs di tradurre in pratica il suo amore.
La violenza di questa cancellazione va denunciata.
Di fatto il lavoro viene diviso in due categorie:
Quello piacevole ( creativo,intellettuale, socialmente prestigioso) e quello che non lo è ( ripetitivo, non intellettuale, generico)
Chi fa lavori piacevoli è privilegiato in termini di ricchezza, status sociale , istruzione, pregiudizi razziali e peso politico anche se costituisce una piccola parte della forza lavoro complessiva.
Per chi è costretto a fare un lavoro che non ama è tutta un'altra storia. I lavori che si fanno per motivi e bisogni diversi dall’amore  ( cioè la maggior parte ) non sono solo sminuiti, ma cancellati, dal credo di Jobs.
Pensate alla grande varietà di lavori che  hanno permesso a Jobs di vivere anche un solo giorno da amministratore delegato della Apple. Il cibo che ha mangiato è stato raccolto nei campi e trasportato a destinazione. Le merci della sua azienda sono state assemblate, impacchettate  e spedite. Gli sponsor pubblicitari sono stati concepiti, scritti, interpretati e filmati. Le cause legali sono state discusse in tribunale . I cestini della carta straccia sono stati svuotati e le cartucce delle stampanti sostituite.
Eppure, dal momento che la stragrande maggioranza dei lavoratori rimane invisibile agli occhi delle elite innamorate del loro lavoro, non stupisce  che le gravi difficoltà affrontate  oggi dai lavoratori ( salari ridicoli, costi degli asili nido e cosi via ) stentino ad essere percepite  come problemi politici perfino dalle frange  più progressiste della classe dirigente.
Ignorare la maggior parte  dei lavori e riclassificando il resto come “amore”, “fa quello che ami” è la più grande  ideologia in circolazione  contro i lavoratori.
Se crediamo che lavorare come imprenditori nella Sillycon Valley, addetti stampa di un museo o ricercatori di un istituto, sia essenziale per essere persone autentiche  cosa pensiamo delle vite interiori e delle speranze di quelle che puliscono le stanze d’albergo o riforniscono gli scaffali di un grande magazzino? La risposta è: Niente.
Eppure , sono proprio i lavori più faticosi e sottopagati che la maggior parte della gente continua a fare. Elevare un certo tipo di professionisti a qualcosa che vale la pena di amare significa automaticamente  denigrare il lavoro di quelli che fanno mestieri poco attraenti ma che poi sono quelli che mandano avanti la società.
Prima di soccombere al  mantra “fa quello che ami” è fondamentale chiedersi “ A chi conviene, esattamente, fare in modo che il lavoro non sia percepito come un lavoro?”  Perché i lavoratori dovrebbero avere l’impressione di non lavorare se è proprio quello che fanno ?
Lo storico Mario Liverani ci ricorda che  “l’ideologia ha la funzione di presentare allo sfruttato lo sfruttamento in una luce favorevole , come qualcosa di vantaggioso per gli svantaggiati”
Mascherando gli stessi meccanismi di sfruttamento che alimenta, “ fa quello che ami” è il più perfetto strumento ideologico del capitalismo. Distoglie l’attenzione dal lavoro degli altri, mascherando il nostro da qualcos’altro. Nasconde il fatto  che se considerassimo lavoro quello che facciamo, potremmo stabilire dei limiti appropriati ed esigere un compenso equo ed orari umani compatibili con la famiglia e lo svago.
Se lo facessimo aumenterebbe il numero delle persone in grado di fare il lavoro che amano.


Di Miya Tokumitsu

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