Tratto da “Quello che i soldi non possono comperare” di Michael J. Sandel editore Feltrinelli
Negli ultimi
trent’anni i mercati e i valori di mercato, hanno preso a governare le nostre
vite come mai prima d’ora. Viviamo in una epoca in cui quasi tutto può essere
comperato e venduto.
Gli anni
precedenti la crisi finanziaria del 2008
sono stati un momento di esaltazione della fede nei mercati e della deregulation. Questa epoca ha avuto
inizio negli anni ottanta quando Ronald Reagan e Margaret Thathcer sostennero che “erano i mercati e non i governi” ad avere in
mano le chiavi della prosperità e della libertà. Tale credo è perdurato negli
anni novanta con “il pensiero non ostile ai mercati” di Bill Clinton e Tony
Blair.
L’era del
trionfalismo dei mercati sta volgendo al termine, oggi questa fiducia è in
dubbio. La crisi finanziaria non ha solamente instillato il dubbio sulla
capacità dei mercati di allocare il rischio
in maniera efficiente, ha anche suscitato la diffusa percezione che i mercati si siano allontanati
dalla morale e si debba riavvicinarli ad
essa in un qualche modo ma che cosa ciò significhi, o come dovremmo muoverci al
riguardo, non è ovvio.
Per
affrontare questa situazione non basta inveire contro l’avidità; occorre
ripensare al ruolo che i mercati possono giocare nella nostra società. Per affrontare
tale dibattito, serve riflettere a fondo sui limiti morali dei mercati, serve
chiedersi se esiste qualche cosa che il denaro non può comprare…..SEI ARRIVATO QUI
Perché
preoccuparsi del fatto che stiamo andando verso una società in cui tutto è in
vendita?
Per due
ragioni: una riguarda la diseguaglianza; l’altra la corruzione.
Consideriamo
la diseguaglianza. In una società in cui tutto è in vendita, la vita è più
difficile per chi dispone di mezzi modesti. Più il denaro può comprare, più la
ricchezza o la sua mancanza contano.
Se il solo
vantaggio della ricchezza fosse la possibilità di comprare yacht, auto
sportive, gioielli o vacanze esclusive, le diseguaglianze di reddito e di
ricchezza non importerebbero molto.
Man mano però
che il denaro arriva a comperare sempre più cose: l’influenza politica, una
buona assistenza sanitaria, una casa in un quartiere sicuro, l’accesso a scuole
d’elite, la distribuzione del reddito e della ricchezza assumono un ruolo
sempre maggiore.
Laddove
tutte le cose buone sono comprate e
vendute, avere i soldi fa la differenza.
La seconda
ragione per cui dovremmo esitare a mettere tutto in vendita è più complessa da
spiegare. Non riguarda la diseguaglianza e l’equità ma gli effetti corrosivi
dei mercati. Assegnare un prezzo alle cose buone può corromperle.
Quando
decidiamo che certi beni possono essere comprati e venduti, decidiamo, almeno
implicitamente, che è appropriato trattarli come merce, come strumenti di
profitto e di consumo.
Ma non tutti
i beni sono in questo modo valutati
correttamente. L’esempio più ovvio è l’essere umano. La schiavitù è esecrabile
perché trattare gli esseri umani come merce da comprare e vendere all’asta non riesce a valutare gli
esseri umani nel modo appropriato, come persone meritevoli di dignità e
rispetto, piuttosto che mezzi di guadagno e oggetti d’uso.
Questo
esempio mette in luce un aspetto più generale; se trasformate in merci, alcune
delle cose buone della vita vengono
corrotte o degradate.
Senza
rendercene conto e senza averlo mai
deciso di farlo, siamo passati dall’avere
un economia di mercato all’essere una società di mercato, la differenza
è che un economia di mercato è uno strumento prezioso ed efficace per organizzare l’attività produttiva. Una
società di mercato è un modo di vivere
in cui i valori di mercato penetrano in ogni aspetto dell’attività
umana. Un luogo dove le relazioni sociali sono trasformate a immagine del
mercato.
Vogliamo
un’economia di mercato o una società di mercato? Quale ruolo dovrebbero giocare i mercati nella vita pubblica e nelle
relazioni personali ? Come possiamo decidere quali beni debbono essere comprati
e venduti e quali vadano governati da
valori non di mercato?
Un dibattito
serio sul ruolo e sulla portata dei mercati rimane largamente assente dalla
nostra vita politica perché ogni tentativo di
ripensare al ruolo ed alla portata dei mercati dovrebbe prendere le
mosse dal riconoscimento di due ostacoli scoraggianti.
Uno è il
persistente potere e prestigio della logica di mercato ed è un ostacolo
sconcertante se solo pensiamo che non è
bastata la crisi finanziaria del 2008 a far cambiare le cose.
Il secondo è
la sudditanza della politica alle regole della finanza che impedisce di
affrontare un dibattito sui limiti morali dei mercati, un dibattito pubblico
che rifletta su questioni morali controverse quali: il giusto modo di valutare
la procreazione, l’infanzia, l’istruzione, la salute, l’ambiente, la
cittadinanza e altri beni.
Tutto questo
mentre cresce nei cittadini la frustrazione per un sistema politico incapace di
agire per il bene comune o di occuparsi delle questioni che contano di più.
Quando
pensiamo alla moralità dei mercati, pensiamo innanzitutto alle banche di Wall
Street ed ai loro spericolati misfatti, agli hedge funds, alle manovre di salvataggio della finanza con i soldi
pubblici.
La sfida morale
e politica che dobbiamo affrontare oggi consiste nel ripensare il ruolo e la
portata dei mercati all’interno delle nostre attività sociali, delle relazioni
umane e della quotidianità.
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